Making places
C’è una differenza sostanziale nell’approccio di Macroarea al placemaking, in ordine al suo campo di applicazione, rispetto a quanto risulta essere il pensiero diffuso su questa pratica.
In generale se ne parla in un’accezione che rimanda a processi di riuso o di diverso o migliore uso di ambiti dello spettro delle interconnessioni urbane.
Si tratta quindi, per quanto ammesso nelle discipline che regolano la gestione della città e del territorio, di un’applicazione specificamente volta a ricercare soluzioni ai problemi della città per quanto riconducibile alle sue pertinenze di uso collettivo.
Un esempio emerge dalla lettura del pensiero di Elena Granata. L’autrice di Placemaker fissa la sua ottima e accurata analisi in ambito urbano, è interessata a indagare quali siano state le espressioni, tipicamente quelle eterodosse rispetto alla disciplina classica della gestione territoriale, che hanno puntato a dare soluzione ai malfunzionamenti delle aree metropolitane. Questa ricerca ha evidenziato le sperimentazioni che hanno introdotto misure atte a “cucire” le esperienze di chi vive la città, mediante l’uso virtuoso degli spazi di risulta, dei vuoti urbani, di tutti quegli ambiti che storicamente né la pianificazione urbana, né la sensibilità cittadina ha mai elevato al rango di potenziali elementi funzionali alla città.
Il male delle città si risolve quindi ambiziosamente nell’introduzione di nuovi criteri utili ad attualizzare la dinamica delle funzionalità dei luoghi di relazione fra i suoi composti di base, gli edifici e le loro funzionalità intrinseche, che tuttavia restano esclusi da ogni interrogativo. Se vogliamo, niente di nuovo rispetto a quello che la pianificazione urbana tenta di fare da qualche decennio attraverso esperienze virtuose operate da avanguardie di amministratori illuminati e urbanisti liberi da dogmatismi.
Veniamo a noi. Il covid, si dice, ci ha spinto a elaborare connessioni concettuali capaci di presentare le nuove regole dell’abitare. Ci ha portato a dilatare il nostro ambito d’azione dal chiuso di luoghi (fossero essi fisicamente chiusi o spazi aperti di relazione) chiaramente e scientemente deputati a svolgere una funzione.
Ed è qui che l’indagine prova a trovare risposte, ritrova ispirazioni e traccia un panorama di esperienze che hanno nel tempo più o meno recente distorto il modo in cui architetti e urbanisti hanno sempre guardato la città.
Tuttavia il covid, accelerando una progressione già prima in atto in alcuni segmenti, come ad esempio quello dell’edilizia per uffici, ha sancito un cambiamento ben più profondo nell’uso degli spazi della città, rimettendo in discussione i principi stessi che storicamente hanno assegnato una precisa funzione a un dato edificio (salvo mirate e consapevoli variazioni sul tema).
Abbiamo scoperto che le nostre case, gli uffici in cui lavoriamo, le scuole dei nostri figli, i luoghi destinati a svago, cultura, sport non sono più in grado di essere compiutamente tali. Oggi dietro ogni muro si trova una complessità che non può avere semplificazione se non attraverso un radicale cambio di paradigma.
Casa, ufficio, museo diventano anche altro, aprono il loro perimetro funzionale. Alcune di queste funzioni POSSONO diventare altro, e allora meglio si adattano alla mutazione. Pensiamo alla casa, che mutua la necessità di inglobare l’attività lavorativa attraverso il nuovo (in realtà antichissimo) concetto di smart working. Altre invece DEVONO diventare altro, pena l’estinzione. Pensiamo ai centri commerciali, ai cinema e ai teatri, ai musei, alle palestre. Non viene meno il loro ruolo economico e sociale, ma è necessaria la loro rifondazione secondo un principio funzionale aggiornato.
La novità, e il paradosso, sta nel fatto che i confini fisici di queste entità minime si sono aperti. Il perimetro di questi spazi per funzioni ha perso il suo rigore e diventa una membrana osmotica capace di scambiare con l’esterno.
Le cellule antropiche di base entro le quali tutto accade sono i luoghi da ripensare per fronteggiare la nuova normalità.
Il placemaking si gioca qui.